Produrre all’estero accresce valore e occupati anche in Italia
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Andare a produrre all’estero per i nuovi mercati (e non solo limitarsi a vendere container di merce prodotte “in casa”) allunga la vita delle imprese italiane. E la allunga in Italia. Non solo. Aumenta, in media, anche il numero degli occupati, sempre in Italia. In pratica, l’idea che oggi de localizzare significhi chiudere capannoni e trasferire produzioni e know how impoverendo il territorio non è vincente (anche se i casi ci sono). Mentre le imprese che mantengono la “testa” in Europa e “braccia” nei mercati che crescono di più – non solo ammortizzando alcuni costi produttivi, ma anche accorciando costi di trasporto e tempi di consegna – mostrano, nel medio-lungo periodo, le performance migliori.
È quanto emerge da uno studio condotto dal Politecnico di Milano e presentato in anteprima all’Università Liuc di Castellanza che ha analizzato un campione di oltre 300 Pmi nazionali che hanno compiuto operazioni di investimento diretto all’estero aprendo un impianto produttivo attraverso una società locale che risponde alla “casa madre” italiana. Alcune di queste attraverso forme proprie di finanziamento, altre attraverso Simest (la società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti che acquisisce “temporaneamente” partecipazioni di minoranza nelle “filiali” estere di Pmi italiane per finanziarne l’espansione).
«Dal confronto – ha spiegato Michele Tronconi, consigliere Simest che ha illustrato lo studio – emerge che le imprese partecipate Simest, tra 2006 e 2015, hanno avuto un tasso di fallimento pari a quasi la metà di quello di imprese che hanno avviato iniziative all’estero senza questo supporto: 15,1% contro 28,8%». Anche il tasso di sopravvivenza è superiore: l’85% contro il 71%. Inoltre, tra 2010 e 2015, le imprese partner di Simest mostrano un tasso medio di crescita annua superiore alla media nazionale, sia in termini di dipendenti (6 volte), sia in valore della produzione (7 volte) sia in valore aggiunto (quasi + 10% l’anno contro un dato nazionale negativo del -0,6%). «In un mondo che rischia di essere afflitto sempre più da protezionismi – ha detto il presidente di Simest, Salvatore Rebecchini – sarà ancor di più necessario posizionarsi con insediamenti produttivi sull’estero».
Per fare questo «Un contributo importante – ha sottolineato Anna Gervasoni, ordinario di Economia e Gestione delle Imprese alla Liuc – può essere dato da fondi di private equity e private debt, che forniscono capitali di rischio e di debito alle imprese con piani di sviluppo in varie modalità».
Mentre Simonetta Acri, chief sales officer di Sace, ha sottolineato «l’importanza, per le aziende, di avere a disposizione una “cassetta degli attrezzi” adeguata. Sace e Simest possono fare la differenza con iniezione di capitale, finanziamenti a medio-lungo termine e coperture assicurative». Anche per questo, ha detto Rioccardo Comerio, presidente dell’Unione industriali di Varese «abbiamo deciso di entrare, con una piccola quota, nel capitale di Simest».
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Fonte: http://www.ilsole24ore.com/
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